Scrivere dei lavori di un artista che è anche tuo amico nasconde sempre il sospetto di una qualche disonestà, specie se il lavoro di questo artista, di questo amico, ti piace molto.
Dalla mia ho il vantaggio di avere visto a volte l’artista all’opera. Di averlo visto, prima pensare e poi provare e poi elaborare i suoi segni.
Chi vede Artuso disegnare o dipingere, ha l’impressione di un gigante che si chini a raccogliere un piccolo sasso da terra. E si chini a osservare come questo oggetto minuscolo riflette la luce, stupito da tanta complessità.
Chi vede Artuso disegnare ha l’impressione di qualcuno che raccoglie colore, che raccoglie segni, non di qualcuno che lascia lì la sua idea del mondo. I suoi soggetti, spesso umani, spesso ridicolizzati nella loro miseria o colti nell’impeto eroico di uno sforzo comune, sono avvolti in una nebbia fumosa, sono circondati da una polvere che sono costretti a respirare ma che impedisce loro di vederci. È come se fossero protetti da esplosioni materiche, sono nel loro mondo e noi possiamo vederli unicamente dal buco della serratura.
È una parte del mistero che si dischiude, senza rivelarci il tutto.
Qualcuno potrà trovarli buffi, qualcuno potrà trovarli tragici, a seconda del proprio stato d’animo, ma sempre si tratta di una denuncia. La denuncia del nostro immane sforzo di stare al mondo, della ridicolaggine del nostro prenderci sul serio, specie se siamo importanti, specie se siamo potenti.
Quei personaggi, che anche quando sono animali raccontano il loro lato “umano”, cioè terrestre, sono raffigurati in un atteggiamento che raramente è una posa voluta, sono, appunto, sorpresi. Stanno compiendo un piccolo gesto che appartiene al loro essere, sono frutto di paradossi, stanno pescando un pesce gigante che li inghiotte, si fanno attraversare da parole che hanno perso significato, sono sorpresi da coni d’ombra, da luci inattese, da rovesciamenti del senso; eppure sembrano a loro agio nel paradosso.
Ecco, questo è un lato interessante dell’artista Artuso: non giudica, racconta. Non mette mai a disagio i suoi personaggi, e quando lo fa, quel disagio è parte del loro essere, quindi per niente “disagevole”. Siamo noi che c’intrufoliamo nel loro mondo, non s’impongono, non vogliono raccontarci la loro vita, si accontentano di essere.
Non posso non fare un parallelo tra il modo di lavorare coi personaggi che l’attore Artuso interpreta sulla scena o nel cinema e coi personaggi che l’artista Artuso mette su carta, cartone, tela o qualunque supporto gli capiti a tiro. Il parallelo ha un senso perché c’è un legame: sia sulla scena che sulla carta, Artuso non giudica mai i suoi personaggi, non denuncia loro ma il loro stare al mondo. Quello che passa è quello che sempre dovrebbe passare quando un artista rappresenta il mondo: l’umanità profonda che ciascuno di noi racchiude e che spesso è ignorata.